La creator economy è un settore in crescita, dove molte persone trovano lo spazio per creare un proprio progetto indipendente, pubblicando contenuti digitali. A volte questo progetto diventa un vero proprio business, e questo spesso fa sorgere qualche dubbio sugli aspetti fiscali della propria attività.

Sono molte le domande che si pongono i content creator,e le risposte non sono sempre facili. Infatti, come accade anche per altri fenomeni digitali, il sistema fiscale non si adatta facilmente a nuove attività create dallo sviluppo tecnologico.

I principi e la struttura delle nostre imposte sono stati pensati per un’economia diversa, e i limiti di questa impostazione tradizionale emergono anche con la creator economy. Questo comporta uno sforzo in più per capire come inquadrare fiscalmente l’attività di creazione di contenuti.

Bisogna poi tenere presente che ogni situazione ha le proprie caratteristiche, ed quindi è sempre importante valutarla assieme a un consulente esperto.

Perché è necessario occuparsi anche degli aspetti fiscali della creator economy

Una delle caratteristiche della creator economy è proprio la facilità con cui si possono inventare nuove opportunità di lavoro. A volte un’attività iniziata per gioco può raggiungere in poco tempo anche cifre importanti. E questi flussi di entrate non regolarizzate potrebbero attirare l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza. Ma in quel caso potrebbe essere già troppo tardi per rimediare.

Un esempio recente è la storia dello youtuber Stefano Lepri (in arte St3pny), che non ha mai dichiarato i suoi ricavi dalla monetizzazione dei video. La Guardia di Finanza lo ha scoperto ed ha fatto partire sia un procedimento per recuperare le imposte non pagate (con interessi e sanzioni), sia un procedimento penale. Alla fine è stata accertata un’evasione di centinaia di migliaia di euro, e Lepri è stato condannato a 8 mesi di reclusione.

Quello di Stefano Lepri era un caso estremo, ma dimostra come sottovalutare gli aspetti fiscali possa portare a conseguenze spiacevoli anche per chi lavora nella creator economy.

Serve avere una partita IVA per fare il creator?

Di solito questo è il primo dubbio che hanno molti content creator, quando pensano a come essere in regola con il fisco. Come detto, non esistono norme specifiche per la creator economy, ma si deve individuare il corretto regime fiscale in base a come è svolta l’attività di creazione di contenuti.

In particolare bisognerà aprire una partita IVA se l’attività è continuativa, abituale e professionale. Questi sono caratteri generici e che vanno valutati caso per caso. Ma è fondamentale fare questa valutazione, soprattutto quando si ricevono soldi per la propria attività di creazione di contenuti.

La partita IVA non ha un costo di per sé, ma serve a identificarsi come lavoratore autonomo (libero professionista o imprenditore). La persona che svolge professionalmente l’attività di content creator dovrà poi dichiarare i redditi che percepisce e pagare le relative imposte e i contributi previdenziali.

Chi invece non è nella situazione per cui è necessaria una partita IVA, ma percepisce occasionalmente dei redditi dalla propria attività di creator, deve comunque dichiararli fra i cosiddetti “redditi diversi”. La distinzione fra attività occasionale e attività professionale può sembrare banale, ma nella realtà non è così semplice e va considerata attentamente.

A volte si pensa che aprire una partita IVA sia una scelta impegnativa e piena di ostacoli. In realtà, se fatta correttamente, consente di gestire la propria attività in modo trasparente e può anche essere un risparmio. Infatti la tassazione delle partite IVA, a certe condizioni (il cosiddetto “regime forfettario”), è più favorevole rispetto alla normale IRPEF.

Dove si pagano le imposte: in Italia o dove si svolge il servizio?

Le imposte su tutti i tipi di redditi (da lavoro dipendente, da lavoro autonomo, d’impresa ecc.) si pagano allo Stato in cui si ha la residenza fiscale. Semplificando il concetto, si pagano nel luogo in cui si vive per la maggior parte del tempo durante l’anno o comunque dove si trova il centro dei propri interessi.

Questo significa che non conta il luogo dove sono localizzati i clienti, ma quello in cui c’è la residenza del content creator o della società che svolge l’attività creativa (qui trovi il nostro approfondimento sul lavoro nomade).

Questo principio vale solo per le imposte sui redditi, l’IVA sulle vendite di prodotti o servizi invece segue regole molto diverse.

Qual è il trattamento fiscale per la vendita di prodotti o servizi nella creator economy?

I content creator, oltre a ricevere sponsorizzazioni o guadagni dalle piattaforme, a volte creano dei propri prodotti digitali, che vendono a un pubblico più o meno vasto.

In questo caso gli aspetti fiscali riguardano soprattutto il versamento dell’IVA sulle vendite che sono state fatte. Vendere prodotti online è peraltro una caratteristica che rende l’attività svolta in modo professionale ed organizzato, per cui sarà necessario avere una partita IVA.

Sui prodotti che si vendono si dovrà applicare l’IVA, sia che si tratti di prodotti per altre imprese o per consumatori privati.

La questione è più complessa se la vendita avviene a un cliente che vive all’estero. In questo caso bisognerà distinguere tra vendite a imprese (chiamate “vendite B2B”) e vendite a privati (chiamate “vendite B2C”).

Riassumendo:

  • se si vende a un consumatore privato (B2C), si applica l’IVA italiana se le vendite totali sono sotto la soglia di 10.000 euro. Sopra quella soglia ci si dovrà registrare al portale OSS (One Stop Shop), per versare l’IVA allo Stato in cui risiedono i diversi consumatori privati;
  • se invece si vende a un’impresa (B2B), non si applica l’IVA, perché la dovrà pagare l’impresa nel suo Paese.

Per approfondire questi aspetti, SmartIUS ha creato una Guida fiscale all’eCommerce, una risorsa pensata proprio per chi ha necessità di orientarsi nel mondo delle vendite online.

Quali sono invece le regole fiscali per i crowdfunding dedicati alla creator economy?

I content creator hanno a disposizione varie modalità di finanziamento online per sostenere la propria attività. Queste forme di crowdfunding, particolarmente utili per i creator all’inizio della loro attività, possono essere molto diverse fra loro:

  • contributi dai sostenitori, raccolti tramite piattaforme come Patreon;
  • donazioni online (donation crowdfunding);
  • donazioni con una ricompensa (reward crowdfunding);
  • finanziamenti raccolti da più persone (lending crowdfunding);
  • raccolta di capitali per una società (equity crowdfunding).

Ognuna di queste modalità, tutte molto valide per finanziare la creator economy, ha un diverso trattamento fiscale. Anche in questo caso non esistono regole specifiche per la tassazione del crowdfunding, ma bisognerà applicare le norme previste per situazioni simili.

Cercando di riassumere:

  • i contributi dati dai sostenitori di Patreon corrispondono sostanzialmente a una vendita di servizi (anche secondo la stessa piattaforma): sono soggetti all’IVA e alle imposte sui redditi, perché in cambio del sostegno si riceve la possibilità di vedere contenuti esclusivi;
  • il donation crowdfunding invece non è soggetto né all’IVA (non c’è uno scambio, è una libera scelta donare) né alle imposte sui redditi, se non si ha una partita IVA. Ma bisogna valutare attentamente il singolo caso, perché la situazione potrebbe essere più complicata;
  • il reward crowdfunding è soggetto all’IVA e alle imposte sui redditi solo se si raggiunge l’obiettivo fissato; se invece i soldi vengono restituiti ai sostenitori, non c’è alcuna imposta da pagare. Questa è la posizione dell’Agenzia delle Entrate, ma c’è chi sostiene che se la ricompensa è solo simbolica, si applichi lo stesso trattamento del donation crowdfunding;
  • il lending crowdfunding è una forma di finanziamento, quindi a livello fiscale è rilevante soprattutto per chi dà il finanziamento: in questo caso gli interessi che riceve il finanziatore sono soggetti alle imposte sui redditi;
  • lo stesso principio vale per l’equity crowdfunding, con cui a fronte di un investimento (anche piccolo) si diventa soci di una startup: gli eventuali dividendi o le somme derivanti dalla vendita della partecipazione (cd. plusvalenze) sono soggetti alle imposte sui redditi.