Personal branding: quante volte abbiamo sentito questo termine?

Eppure rimane, per molti, un perfetto sconosciuto. Il personal branding è un concetto ampio che ha acquistato ormai una notevole importanza pratica.

Soprattutto con l’avvento dei social network, sempre più professionisti (alias imprenditori di se stessi) fanno ricorso al personal branding per affermarsi sul mercato.

Tuttavia, mentre nel settore dell’impresa il ricorso al marketing e alle tecniche pubblicitarie è consentito con poche riserve (legate soprattutto al tema della concorrenza), nell’ambito delle professioni intellettuali questo non vale. Il personal branding deve essere maneggiato con cura dai professionisti, per non violare le norme di deontologia professionale.

In questo articolo cercheremo di fare chiarezza su cos’è il personal branding, perché è così importante e in che relazione si pone con la deontologia.

Il personal branding: cos’è e perché è importante

Personal branding, (per molti) questo sconosciuto. La sua definizione ruota, com’è ovvio, attorno al concetto di brand.

Il brand è una sorta di “segno distintivo”, ciò che consente di identificare il prodotto o il servizio offerto da un’azienda venditrice e di distinguerlo da quello degli altri competitors.

A brand is a name, term, design, symbol or any other feature that identifies one seller’s good or service as distinct from those of other sellers

[voce “brand” di Wikipedia].

Il personal branding non è altro che la trasposizione di questo “tratto caratterizzante” l’offerta imprenditoriale sul piano dell’attività professionale. E’ ciò che consente a un soggetto di distinguersi dai concorrenti attraverso la creazione di una sorta di “marchio personale”.

In un mercato del lavoro sempre più competitivo, il personal branding offre un triplice vantaggio:

  1. permette di farsi conoscere, ad esempio, in un mercato nuovo;
  2. aumenta il vantaggio competitivo, in quanto permette al professionista di concentrarsi sui propri tratti distintivi e di potenziarli;
  3. permette di raggiungere quei potenziali clienti che condividono i valori, le priorità o il modus operandi del singolo professionista, i quali saranno più propensi ad acquistarne i servizi.

Tra gli svantaggi rientra, invece, il problematico rapporto con la deontologia professionale, soprattutto per chi esercita un’attività regolamentata, come vedremo nei prossimi paragrafi.

L’importanza del personal branding è riassunta in una frase contenuta nel famoso articolo The Brand Called You” di Tom Peters:

Noi siamo gli amministratori delegati delle nostre aziende: Me Inc. Per essere nel business di oggi, il nostro compito più importante è quello di essere marketer di un marchio chiamato Te. (…) E’ inevitabile.”

Lo scopo ultimo del personal branding è racchiuso qui.

Cosa significa fare personal branding in concreto?

Per passare dalla teoria alla pratica del personal branding è necessario seguire una strategia, che prevede solitamente due fasi:

  1. una fase di autoanalisi, in cui il professionista comprende quali sono le attitudini, conoscenze o abilità che lo rendono speciale, diverso dagli altri. Questi aspetti saranno, da ora in poi, il suo “marchio di fabbrica”. E’ poi necessario stabilire il target, ossia la fetta di mercato che con più probabilità sarà interessata a un’offerta di servizi con tali caratteristiche;
  2. una fase operativa, in cui il professionista “racconta” la propria offerta alla clientela di riferimento per catturarne l’attenzione (c.d. storytelling).

Con l’avvento del web, sono aumentati gli strumenti a disposizione del professionista per fare personal branding e, con essi, i rischi di violazione delle norme di deontologia.

Infatti, ciascuno di noi promuove il proprio marchio in tanti modi diversi, sia indirettamente sia direttamente.

Indirettamente mettendo un like, lasciando un commento o scrivendo un post. Addirittura tenere comportamenti passivi, come rifiutarsi di interagire con gli utenti o cancellarsi dai social network, può avere un impatto sulla promozione del marchio personale (vedi l’“uscita” dai social dei Radiohead).

Ma il modo migliore per fare personal branding è promuovere direttamente il proprio marchio. Oltre alle normali tecniche pubblicitarie, è possibile – e spesso preferibile – ricorrere al web e alle piattaforme digitali per promuovere il proprio brand personale. Pubblicando video, immagini, registrando audio o scrivendo post è possibile dare prova delle proprie competenze e accrescere la propria credibilità.

I “ferri del mestiere” del personal branding

Anche il personal branding, come tutte le tecniche, ha i propri “ferri del mestiere”.

La promozione del marchio personale si basa sulla creazione di contenuti di qualità da diffondere sul web o sui mass media. Dare prova della propria competenza, ma anche esprimere la propria personalità sono ottimi modi per attirare l’attenzione di potenziali clienti, incuriositi da quel “qualcosa in più” che il professionista dimostra di possedere.

Ma il personal branding si basa anche sull’advertising, ossia sulla pubblicità a pagamento effettuata tramite intermediari specializzati e diretta al target di clientela scelto. L’advertising, in particolare il digital advertising, pone i maggiori problemi sul piano della deontologia professionale.

Per quanto riguarda gli strumenti utili per fare personal branding, ve ne sono due principali: il primo è il blog o il sito internet personale; il secondo è rappresentato dai social network. Il professionista può scegliere liberamente quale strumento usare per fare personal branding.

Tuttavia, l’uso dei social media può essere più rischioso, sia dal punto di vista della deontologia sia dal punto di vista della visibilità del professionista. Basta, infatti, una modifica dell’algoritmo che regola il funzionamento della piattaforma (nota è la recente modifica dell’algoritmo di Facebook) per mandare all’aria la strategia promozionale.

Personal branding e social network

I social network rappresentano un nuovo canale di comunicazione, alternativo a quelli tradizionali, sempre più usato per fare personal branding.

Con l’avvento dei social sono cambiati radicalmente i modi e i luoghi di incontro e interazione degli individui. Nel mondo virtuale ciascuno di noi è presente attraverso il proprio “alter ego digitale” e interagisce con colleghi e potenziali clienti attraverso di esso. Diventa quindi fondamentale prestare attenzione a ciò che il nostro “clone virtuale” racconta di noi, soprattutto all’interno delle piattaforme digitali. Una parola sbagliata potrebbe compromettere la strategia di personal branding pianificata dal professionista!

E’ normale che un professionista intenzionato ad aumentare la propria competitività sul mercato voglia fare personal branding tramite i social media. Del resto, queste piattaforme sono utilizzate anche dai lavoratori subordinati e dai dipendenti della Pubblica Amministrazione (con risvolti importanti, soprattutto nel caso dei magistrati amministrativi, come spiegato in questo articolo).

Tuttavia, l’uso di questi strumenti può creare problematiche di non poco conto sul piano della deontologia professionale.

… e la deontologia professionale?

 In generale, per deontologia professionale s’intende l’insieme delle regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata professione.

La deontologia rappresenta uno dei cardini attorno a cui ruotano le cosiddette “attività riservate”, ossia quelle professioni il cui esercizio è riservato a soggetti iscritti in Albi o Collegi. Volendo fare alcuni esempi di categorie tenute al rispetto della deontologia professionale, possiamo ricordare i commercialisti, i consulenti del lavoro, gli architetti, gli infermieri, i geometri, gli avvocati, i medici, gli ingegneri e i giornalisti.

Le regole di deontologia, raccolte in appositi codici deontologici, hanno lo scopo di guidare il singolo iscritto nell’esercizio della sua attività e nei rapporti con la clientela, i colleghi, i terzi. Ovviamente, le attività di personal branding riguardano molte delle aree citate.

Il rispetto delle regole di deontologia rappresenta anche il mezzo per garantire la tutela del prestigio e dell’immagine di una data categoria professionale.

La violazione di tali regole di condotta può dare luogo a un illecito disciplinare e comportare l’applicazione di sanzioni anche gravi, come la radiazione.

L’era della deontologia 2.0

A causa dello sviluppo delle nuove tecnologie e della crescita della cosiddetta platform economy, la deontologia si è trovata spesso a fare i conti con la necessità di disciplinare e valutare comportamenti nuovi, non previsti dalle norme vigenti.

Spesso, tali condotte hanno direttamente a che fare con l’uso di social network o altre tecnologie per finalità di personal branding o per scopi pubblicitari. Il fatto che l’azione potenzialmente contraria alla deontologia professionale sia commessa dall’iscritto nell’esercizio della propria attività lavorativa, o sia ad essa intimamente collegata, non è di secondaria importanza.

Tendenzialmente, infatti, la deontologia attribuisce rilevanza disciplinare alle condotte compiute “nell’esercizio dell’attività professionale”. Questo approccio si basa su una visione statica della realtà, che presuppone la possibilità di separare nettamente ciò che rientra nella sfera privata e ciò che appartiene alla sfera professionale dell’iscritto.

Il ricorso ai social network (anche per finalità di personal branding) impedisce di distinguere chiaramente se l’utente abbia agito come privato o come professionista. Ciò causa non poche difficoltà agli Enti titolari di poteri disciplinari, chiamati ad accertare se un certo comportamento sia stato commesso o no “nell’esercizio dell’attività professionale”. Quando non sia possibile ricondurre il comportamento alla sfera professionale, nessuna sanzione disciplinare potrà essere imposta all’iscritto, nemmeno quando si tratti di attività compiute con chiara finalità di personal branding.

Vari Ordini professionali hanno quindi deciso di agire in via preventiva, cercando di colmare le lacune lasciate dalla deontologia rispetto a personal branding e uso dei social da parte dei professionisti.

Condotte via web del professionista e rispetto della deontologia

Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili

Nel 2021 il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC) ha modificato l’art. 39, comma II, del Codice di deontologia professionale, che impone ora agli iscritti che usino “mezzi di comunicazione sociale, ivi inclusi i social network”, di agire con rispetto e considerazione dei colleghi e degli organi istituzionali, nonché in modo tale da preservare l’immagine e il decoro della professione. Risulta quindi contrario alla deontologia professionale, ad esempio, utilizzare un linguaggio offensivo o aggressivo nei confronti di un collega nel corso di una conversazione condotta su forum o tramite social network. La violazione di tali principi di deontologia può dare luogo a una sanzione disciplinare a carico del professionista.

Inoltre, l’art. 44 del Codice di deontologia professionale prevede ampia libertà per gli iscritti all’albo circa la scelta del mezzo da utilizzare per veicolare informazioni pubblicitarie (vedi parere del 2016 del CNDCEC sul punto). E’ quindi conforme alla deontologia usare il sito internet o creare un account sui social network per fare personal branding attraverso pubblicità c.d. informativa, nonché ricorrere all’advertising, a condizione che i relativi annunci abbiano contenuto oggettivo e verificabile, trasparente e veritiero, non suggestivo.

Consulenti  del Lavoro

La Fondazione Studi dei Consulenti  del Lavoro nel 2019 ha pubblicato il report “Frammenti di deontologia nell’epoca dei social network” con cui ha voluto porre l’accento sul fatto che il comportamento via social media tenuto dal singolo iscritto può causare pregiudizio all’immagine di tutta la categoria professionale.

Il personal branding via web fatto, ad esempio mediante attività promozionali inappropriate, ovvero con pubblicità comparativa, può ledere il decoro dell’intera categoria professionale. Quando questo accade, l’iscritto deve essere perseguito in via disciplinare per la violazione dei precetti di deontologia professionale.

Infermieri

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la policy elaborata nel 2018, in forma di documento condiviso, dalla Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) relativa alle condotte che gli iscritti devono tenere facendo uso dei social media.

Il documento contiene una sorta di vademecum per gli infermieri che, presentandosi come tali, agiscano sui social e sul web, potendo tali condotte rilevare sul piano della deontologia professionale.

L’ipotesi tutt’altro che infrequente. Secondo un articolo pubblicato su Times nel 2018, infatti, ben 1.200 infermieri sono stati soggetti a sanzione disciplinare per aver violato le norme di deontologia facendo un uso scorretto dei social media. Tra i casi riportati citiamo la pubblicazione in rete di video, foto o informazioni dei pazienti; frequenti sono stati anche i casi di pubblicazione di affermazioni sprezzanti nei confronti dei colleghi sui social network.

Avvocati

Un’altra categoria professionale che ha sempre dimostrato grande sensibilità nei confronti del rapporto tra deontologia e uso dei social network per finalità di personal branding è quella degli avvocati.

Gli artt. 17 e 35 del Codice di deontologia forense consentono oggi all’avvocato di fornire informazioni sulla propria attività professionale “quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse”, quindi anche via web o social media. A prescindere dal mezzo utilizzato (sito web con o senza re-indirizzamento, profilo Facebook, Linkedin o Twitter), le informazioni pubblicate devono però essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative, e fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale per non violare i precetti di deontologia professionale.

Ricordiamo che una strategia di personal branding spesso utilizzata prevede l’indicazione del nominativo dei clienti con cui il professionista ha lavorato, per dimostrare le proprie abilità e competenze. Questa possibilità è preclusa agli avvocati, ai quali è fatto espresso divieto di indicare nelle informazioni pubblicitarie via web – e non solo –  il nominativo dei propri clienti.

Anche il divieto di accaparramento di clientela  può creare attriti tra le regole della deontologia professionale e le strategie di personal branding del professionista. Violano, infatti, le norme dell’art. 37 del Codice deontologico forense sia l’offerta di omaggi o prestazioni a terzi, anche se fatte via web, sia l’offerta di prestazioni professionali al domicilio – anche informatico – degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico.

In caso di mancato rispetto della norma deontologica citata, il professionista potrebbe incorrere in una sanzione disciplinare.

Verso una deontologia 4.0?

In conclusione, appare evidente che una strategia di personal branding basata soprattutto sull’utilizzo della rete e dei social network possa avere notevoli ripercussioni sul piano disciplinare.

Del resto, i recenti interventi compiuti da vari Ordini professionali dimostrano quanto effettivamente la deontologia possa influenzare – e limitare, per certi aspetti – la self-promotion dei professionisti dell’era 4.0 .

Per questi ultimi la sfida è difficilissima: sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie senza tradire la deontologia su cui è fondata la professione che essi esercitano.