Innovazione e cambiamenti nel lavoro portano a chiedersi se sia possibile il licenziamento di un lavoratore a causa di un robot. Il quesito è assolutamente attuale: in alcuni campi il progresso tecnologico è tale da sostituire sempre più l’attività dell’uomo. Vediamo in che termini il licenziamento è possibile, e cosa possono fare imprese e lavoratori per affrontarlo o evitarlo.

Il lavoro cambia

Con un’espressione ad effetto, certamente non priva di fondamento, il sociologo italiano De Masi sostiene che “più digitalizzazione c’è e meno lavoro ci sarà”.

Pensiamoci: quanti acquistano un biglietto ferroviario in biglietteria, e quanti invece presso le macchine automatiche presenti in ogni angolo delle stazioni? Oppure, sono di più le persone che ordinano cibo da asporto o prenotano un ombrellone al mare telefonando, o usando un’app?

Il problema dei cambiamenti e dell’evoluzione nel lavoro c’è. E la sua percezione cambia e si velocizza in maniera direttamente proporzionale al cambiamento stesso.

La consapevolezza del cambiamento: paure e opportunità

Tra i lavoratori cresce la paura in ordine alle conseguenze dell’impiego di robot e intelligenza artificiale. Il dato è costante, e riguarda soprattutto gli operai, figure impiegate nei cicli industriali con compiti spesso ripetitivi.

Già il terzo rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale del 2020 individuava numeri che portano a conclusioni piuttosto “amare”. Il 42% dei lavoratori italiani dichiarava di temere il licenziamento a causa dell’innovazione tecnologica. Tra gli operai, erano di questo avviso ben il 48,8%, sempre più convinti di subire non solo un peggioramento della qualità del proprio lavoro, ma soprattutto di perderlo. Il quarto rapporto Censis-Eudaimon del 2021 non si è espresso sul tema, forse perché inevitabilmente dedicato allo smart working e alle sue implicazioni, temi che anche noi di SmartIUS abbiamo approfondito.

All’opposto, oltre l’80% delle aziende interpellate riferiva di vedere con favore gli effetti di tecnologie, digitale, IA. Mutuando un’espressione efficace, alle “tecnopaure” dei dipendenti fanno da contraltare le “tecnosperanze” delle imprese.

Preoccupazioni sono state riferite in maggior misura dai più giovani: il 39% degli italiani 18-24enni ha riferito di temere per l’automatizzazione del loro lavoro.

Già l’indagine Workforce View in Europe 2019 aveva rilevato che proprio i lavoratori italiani sono tra i più preoccupati per l’automazione nei luoghi di lavoro (al primo posto i britannici, con ben il 40%). Nell’indagine dell’anno precedente l’Italia era invece al primo posto, con il 41,7% dei lavoratori intervistati. Numeri più che dimezzati rispetto a noi si erano registrati invece in Paesi come Svizzera e Polonia (20%). Segno che l’evoluzione e la prospettiva sul lavoro cambia in ogni Paese.

Perché il licenziamento a causa di un robot è possibile

È cronaca il licenziamento di un operaio 61enne la cui causa è stata la sostituzione con un robot, in un’azienda del Milanese.

Evento che ha generato scalpore: da un lato perché era lì impiegato da oltre trent’anni, ed era prossimo alla pensione. Dall’altro perché il licenziamento è stato la dimostrazione, nei fatti, di quelle avvisaglie e previsioni che si ripetono ormai da anni.

La ragione per cui un simile licenziamento è possibile è che si tratta di ipotesi di giustificato motivo oggettivo (o detto anche “licenziamento economico”).

La normativa

Secondo l’art. 3 della legge n. 604 del 1966, si tratta di un motivo riconducibile a specifiche esigenze aziendali.

La regola però è così generica, e potenzialmente vasta, da richiedere una costante attenzione a come viene interpretata dalla giurisprudenza, la cui casistica è il “polso” della società.  Il dibattito sulle motivazioni a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e sulla loro legittimità, non è semplice e non ha soluzioni univoche.

E sta qui il problema: quale scelta è legittima? E in quali tempi e con quali modalità deve essere compiuta per essere considerata tale?

I requisiti del licenziamento

In linea di massima il datore di lavoro deve motivare il licenziamento con una effettiva riorganizzazione, cui si ricollega una soppressione del posto di lavoro. Il punto è molto delicato.

Una causa che può indurre alla soppressione può essere di carattere economico (riduzione dei costi) o tecnico-produttivo (aumentare l’efficienza del lavoro attraverso l’introduzione di innovazioni produttive).

Quel che è certo è che il licenziamento, e conseguente ridimensionamento del lavoro, non deve avere una causa pretestuosa. Ed è senz’altro legittimo il riassetto organizzativo deciso per una più economica gestione dell’impresa, se volto a fronteggiare situazioni sfavorevoli strutturali e non temporanee.

Libertà di iniziativa economica Vs. diritto al lavoro?

Nel trattare di licenziamento e della sua causa bisogna sempre tenere a mente un principio per così dire “antitetico” alla conservazione dei posti di lavoro: la libertà di iniziativa economica. Garantita dalla Costituzione (art. 41), è comunemente intesa come insindacabilità delle scelte imprenditoriali.

Se non esistesse tale principio ne sarebbe pregiudicata l’iniziativa imprenditoriale.

Entrambi i diritti, o principi, impongono precisi oneri probatori (causa del licenziamento, evitabilità/inevitabilità, esistenza di possibili alternative, e altri).

La decisione imprenditoriale, comunque, è soggetta al controllo giudiziale sulla effettività della soppressione del posto di lavoro. Ed infatti per giustificare il licenziamento il datore di lavoro deve dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore ad altre mansioni (c.d. “repechage”).

Generalmente poi – sebbene non manchino sentenze di segno contrariosi sostiene che la causa del licenziamento non può essere il mero aumento del profitto. È certo che l’impresa deve poter “fare impresa”. Ma se passasse l’idea che le macchine possono sostituire un lavoratore nelle medesime mansioni “senza colpo ferire”, in maniera del tutto libera, il licenziamento non sarebbe più quella “extrema ratio” che il nostro ordinamento ammette.

Ad ogni modo, la situazione è diversa da Paese a Paese.

I Paesi di fronte all’adozione delle tecnologie e alle regole sul licenziamento

Ormai in molti ambiti vengono assunti robot, che causano di fatto il venir meno del lavoratore “fisico” (pensiamo all’automotive). Ma ci sono profonde differenze a seconda dei settori e dei Paesi.

Ha fornito un’interessante distinzione una ricerca svolta dal Boston Consulting Group, secondo cui i compiti industriali assegnati ai robot dovrebbero passare dal 10-15% attuale al 25% nel 2025, su scala globale. Con possibilità di crescita molto differenti tra i vari Paesi.

La ricerca infatti ha distinto tra:

  • Fast Adopters (Canada, Cina, Giappone, Russia, Stati Uniti, Regno Unito): economie avanzate con forti investimenti tecnologici. Le loro normative sul licenziamento sono poco stringenti, e quindi le strutture produttive sono più facilmente riadattabili con nuove tecnologie.
  • E, all’opposto, gli Slow Adopters (parte dei Paesi europei, come Italia, Francia, Spagna Belgio, nonché Brasile ed India): minimo ingresso dell’automatizzazione, nonostante alcuni tra essi abbiano alti costi di manodopera. Si caratterizzano per normative stringenti e tutelanti per i lavoratori, e dunque il rinnovamento passa per decisioni che spesso coinvolgono addirittura le istituzioni. Ciò che, a volte, incide negativamente sui tempi, e dunque sulla loro competitività nei mercati.

Cosa fare per evitare che il cambiamento, pur inevitabile, diventi uno stravolgimento?

È senz’altro possibile trovare un adattamento che eviti storture e problemi anche di “tenuta del sistema”. Per scongiurare il rischio di una perdita secca di posti di lavoro (anche dirigenziale) e di una “disumanizzazione”, una soluzione è senz’altro investire in formazione. Competenze aggiornate, trasversali e per tutti i livelli della gerarchia professionale (dal lavoratore operaio al dirigente), e per le aziende di ogni dimensione, possono proteggere la professionalità. Si tratta quindi di attuare piani di upskilling (migliori competenze per il futuro), di reskilling (riqualificazione), di longlife learning.

Anche “…il coinvolgimento delle parti sociali sarà un fattore cruciale per garantire un approccio antropocentrico all’IA sul lavoro”, come si è espressa la Commissione europea nell’interessante Libro bianco del 2020 sull’intelligenza artificiale.

Riqualificazione e aggiornamento garantiranno le competenze richieste dal nuovo mondo del lavoro. E su questo aspetto pare che l’Italia sia in vantaggio rispetto agli altri Paesi, visto che, sempre per The Workforce View in Europe 2018, ben il 66% i datori italiani si è dichiarato propenso a riqualificare i loro dipendenti (mentre solo il 31% degli svizzeri).

Ed è il settore dell’IT, insieme a quello delle telecomunicazioni, ad essersi rivelato il più lungimirante sul tema dell’aggiornamento delle competenze dei lavoratori in vista di un futuro automatizzato (con il 61% dei datori di lavoro interpellati).

Ma dobbiamo avere paura dei robot?

Ci sono stati dei casi-limite, in cui non solo il lavoro dell’uomo è stato sostituito da robot, ma dei sistemi automatizzati hanno addirittura comminato il licenziamento a dei lavoratori.

Il caso emblematico è quello di Amazon USA, che tra il 2017 e il 2018 era arrivata al licenziamento, in un singolo stabilimento (Baltimora), di 300 dipendenti. Sulla base di un sistema di monitoraggio della loro produttività, al ricorrere di certi presupposti il sistema generava il licenziamento come conseguenza, pienamente efficace se il supervisore “umano” dei lavoratori non lo avesse ignorato.

A parte queste storture, le macchine non potranno mai sostituirsi interamente al lavoro umano.

Cosa distingue il lavoratore umano dal robot

Il robot è perfetto per i compiti ripetitivi, ma l’uomo ha creatività, percepisce la qualità, la bellezza. In questo nessun robot lo potrà (auspicabilmente) eguagliare, e dunque il licenziamento a causa sua sarebbe abbastanza utopistico.

Pensiamo all’artigianato, dove la maestria di saperi trasmessi crea da sempre cose di rara bellezza.

Tra l’altro, il robot è un prodotto dell’uomo, non lo dobbiamo dimenticare.

Formazione e capacità umane vanno valorizzate

L’autorevole voce del prof. Roberto Cingolani, fisico noto nel mondo, direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e oggi Ministro per l’Innovazione, in un’intervista di tre anni fa sul tema del lavoro al tempo dei robot diceva che tutte le componenti del lavoro devono impegnarsi per trainare la società nel suo complesso verso livelli più alti di competenza e preparazione. Occorre creare una catena diffusa di continuous learning, una società capace di parlare a tutti i livelli della scala sociale per rendere la gente consapevole di quello che sta avvenendo. E spiegava: “Un individuo agisce seguendo l’istinto di conservazione della specie, la macchina farà un veloce calcolo e sceglierà lo scenario potenzialmente meno dannoso. Sarà il calcolo probabilistico a farla decidere, non esiste infatti una componente ormonale in uno strumento artificiale. Ma la macchina robot sarà in grado di fare la scelta giusta?”.

Una convivenza è possibile per evitare il licenziamento a causa di un robot

Tra l’altro, ci sono anche casi virtuosi di “simbiosi” con i robot, tanto da parlarsi di vero e proprio ambiente collaborativo tra robot e lavoratori.

E, infine, l’uomo ha una caratteristica: l’esperienza. E il saperla condividere e trasferire ad altri consentirà senza dubbio di implementare le skills dei lavoratori, con vantaggi anche per l’impresa.

L’opportunità che ne consegue fa capire, in definitiva, che il licenziamento a causa di un robot è sicuramente possibile e può essere giustificato, ma sicuramente non è inevitabile.