Quali sono i principi fondamentali in materia di sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore nel caso il lavoratore subisca un infortunio?

Per rispondere al quesito, muoviamo da una disposizione del codice civile (l’art. 2087) che pone un principio-base: l’imprenditore ha l’obbligo di salvaguardare l’incolumità fisica e la personalità dei lavoratori.

Questa norma, per quanto riferita specificamente all’imprenditore, va intesa come riferita più generalmente al “datore di lavoro”. Da ciò si ricava la regola che il datore di lavoro assume una posizione di garante dell’incolumità fisica del lavoratore. Pertanto egli deve adottare tutte le cautele necessarie a tutelare i lavoratori, tenendo conto di vari fattori: la particolarità del lavoro, l’esperienza, la tecnica.

Per l’effetto, tali fattori fungono da parametro di adattabilità del lavoro – ed anche del luogo in cui esso si svolge – a:

  • le sue particolarità (ad esempio: un lavoro svolto all’aperto, oppure al chiuso in un luogo rumoroso),
  • l’esperienza (è noto che nei cantieri l’elmetto protettivo è ormai uno standard necessario),
  • la tecnica (nei lavori che richiedono lo spostamento in ampi spazi, è ragionevole avvalersi di mezzi di trasporto).

Le misure, poi, si distinguono tra:

  1. quelle tassativamente imposte dalla legge;
  2. quelle generiche dettate dalla comune prudenza;
  3. quelle ulteriori che in concreto si rendano necessarie (così, recentemente, la Cassazione con sentenza n. 14082/2020).

Che tipo di responsabilità configura questo ruolo di vero e proprio “garante” nei confronti del lavoratore che, ad esempio, subisca un infortunio? Il datore può essere chiamato a rispondere “sempre e comunque”?

Evidentemente, no.

Lo escludono anche le comuni regole di buon senso: nessuno può essere tenuto a fare cose impossibili.

La responsabilità del datore di lavoro è contrattuale: deve garantire la sicurezza del lavoratore

La responsabilità del datore di lavoro non è una responsabilità c.d. “oggettiva”: egli non può rispondere automaticamente e per il solo fatto di essere appunto “il datore di lavoro”.

Infatti, occorre sempre che l’infortunio o la malattia professionale sia in qualche modo a lui attribuibile, a lui riferibile: ad esempio per sua colpa, o per violazione di obblighi di comportamento. E tali obblighi devono essere concretamente individuati, perché per esempio imposti da norme di legge, o di regolamento, o contrattuali, o suggeriti dalla tecnica e dall’esperienza (principi ormai da tempo assodati e ripetuti).

Pertanto, il mero fatto che il dipendente abbia riportato delle lesioni nello svolgimento dell’attività lavorativa non determina di per sé l’addebito al datore di lavoro delle conseguenze dannose: occorre qualcosa in più.

Cosa deve provare il lavoratore per far valere la responsabilità del datore di lavoro?

Per accertare la responsabilità datoriale, il lavoratore che abbia subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa svolta dovrà provare:

  • in primo luogo, ovviamente, l’esistenza di tale danno;
  • la nocività o pericolosità dell’ambiente di lavoro;
  • il nesso tra l’uno e l’altro.

Cosa deve provare il datore per difendersi?

Solo una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze, ciò che a ben vedere potrebbe non essere facile o immediato, il datore ha l’onere di provare di:

  • aver fatto tutto il possibile per evitare il verificarsi del danno,
  • o di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

Ma attenzione, perché il datore di lavoro non solo deve adottare le idonee misure di sicurezza, ma deve anche accertare e vigilare che venga fatto effettivamente uso di queste misure protettive da parte del dipendente. È una conclusione, questa, spesso ribadita dai Tribunali e dalla Corte di Cassazione.

E nel caso di malattia professionale?

Anche in caso di malattia professionale, la responsabilità del datore va collegata alla violazione di obblighi di comportamento imposti dalle norme ed anche suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Egli avrà quindi, come visto sopra, l’onere di provare l’adozione delle misure di sicurezza necessarie ad impedire il verificarsi del danno e l’assenza di un nesso tra la malattia del dipendente e l’inosservanza di tali obblighi.

Peraltro, nel caso di malattia professionale il requisito della “nocività” dell’ambiente di lavoro assume un contorno peculiare, e su questo punto si è di recente ribadito un principio molto importante.

Anche se si accerta la dipendenza da una “causa di servizio” di una malattia professionale, ciò non implica necessariamente, né può far presumere, che gli eventi dannosi subiti dal lavoratore siano derivati dalle condizioni di “insicurezza” dell’ambiente di lavoro.

Infatti, essi potrebbero dipendere proprio dal lavoro stesso e da come esso incida, ad esempio nel lungo periodo, sul fisico del dipendente, sulla sua persona. E ciò farebbe restare fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale “ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici” (testuale, la recentissima Cass. Civ. ord. n. 18132/2020).

Come può il datore evitare di incorrere in responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro?

Anzitutto, ovviamente, “adattando” il luogo di lavoro, e predisponendo le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica dei lavoratori. Per farlo dovrà tenere conto della concreta realtà aziendale, e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (Cass. n. 24742 del 2018). In un prossimo futuro, tecnologie come IoT e 5G si riveleranno utili anche in questo senso.

Oppure, in secondo luogo – e nel caso in cui quanto lamentato dal lavoratore abbia i contorni di una malattia professionale, e non di un infortunio – assegnando il lavoratore a mansioni differenti, o ad altra collocazione. Infatti, il datore di lavoro ha il dovere di adibire il lavoratore, affetto da infermità che potrebbero aggravarsi per l’attività svolta, ad altre mansioni compatibili con la propria capacità lavorativa. È un principio che deriva dall’art. 2087 c.c. ed anche dalla valorizzazione del contratto di lavoro alla luce del principio di “correttezza e buona fede”.

Va tuttavia considerato che a tale dovere non corrisponde un pari diritto per il lavoratore ad essere assegnato a mansioni del tutto diverse da quelle per le quali era stato assunto (art. 2103 c.c.). Ciò infatti imporrebbe al datore di adottare necessariamente una modifica dell’assetto organizzativo, implicante ampliamento organico o innovazioni strutturali a cui non può essere obbligato. E, da ultimo, un’eventuale scelta organizzativa del datore di lavoro potrebbe non determinare affatto un ristoro al deterioramento delle condizioni di salute lamentate dal lavoratore (di nuovo Cass. Civ. ord. n. 18132/2020).