La videosorveglianza sul posto di lavoro è un tema delicato, con precise regole, che può far emergere conflitti fra le ragioni dell’imprenditore e quelle del lavoratore. Da un lato infatti vanno tutelate la dignità e la riservatezza del lavoratore, ma dall’altro possono esserci dei validi motivi per installare sistemi di videosorveglianza.

Per la necessità di bilanciare questo conflitto di interessi contrapposti, l’utilizzo della videosorveglianza nel luogo di lavoro è stata regolamentata anzitutto dallo “Statuto dei lavoratori” (L. 300/1970). Le sue norme, poi, vanno integrate con quelle sulla protezione dei dati personali, di cui al “GDPR” (Reg. UE 2016/679) ed al “Codice della privacy” (D.lgs. 196/2003).

Procediamo con ordine.

Quali sono le tutele per il lavoratore?

Il punto di partenza è l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, modificato nel 2015 con la riforma “Jobs Act” anche per renderlo più adeguato alle esigenze della new economy, che prevede una regola generale e un’importante eccezione.

I sistemi audiovisivi e tutti gli “strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” sono ammessi solo se giustificati da:

  • esigenze organizzative e produttive;
  • sicurezza del lavoro;
  • tutela del patrimonio aziendale.

La norma parla di strumenti da cui derivi “anche” la possibilità di controllo. Questo significa che sul posto di lavoro non è mai possibile installare sistemi di videosorveglianza o di controllo a distanza con l’unico scopo di controllare i lavoratori.

Lo “Statuto” impone all’impresa di ottenere sempre un’autorizzazione prima di procedere all’installazione di simili strumenti (comma 1). Questa autorizzazione può essere l’esito di un accordo con le rappresentanze sindacali, oppure derivare da un provvedimento dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL). Il consenso del singolo lavoratore non è mai sufficiente ad evitare l’accordo o il provvedimento dell’INL.

Diversamente (comma 2) gli strumenti di lavoro e i sistemi che registrano gli accessi e le presenze sul luogo di lavoro non richiedono un accordo sindacale o un provvedimento dell’INL.

Sia che si tratti di un’ipotesi che richieda l’autorizzazione, sia che non la richieda, il datore di lavoro:

  • deve informare il lavoratore sulle modalità di uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli;
  • può trattare le informazioni raccolte solo nel rispetto del Codice della privacy.

Quindi, l’obbligo di informativa vale anche per gli strumenti di lavoro e per i sistemi che registrano gli accessi e le presenze sul luogo di lavoro.

Cosa si intende per strumenti di lavoro?

Secondo lo stesso INL lo strumento di lavoro è solo quello indispensabile a rendere la prestazione lavorativa: ciò non sono, quindi, gli strumenti usati dal lavoratore per altre esigenze (di tipo organizzativo o di tutela del patrimonio).

Classici esempi di strumento di lavoro sono la posta elettronica aziendale o il pc in dotazione al dipendente. Per essi, è necessario informare adeguatamente il lavoratore sulle modalità d’uso e sui controlli, e rispettare la normativa sulla privacy.

Non è invece considerato strumento di lavoro il sistema di rilevazione GPS presente nelle auto aziendali. Serviranno il procedimento di autorizzazione, sopra descritto, l’adeguata informativa, ed il rispetto della normativa sulla privacy.

Il controllo a distanza tramite software

In generale non è possibile stabilire a priori se la categoria dei software sia sempre inquadrabile come strumento di lavoro o meno.

Ad esempio, sono stati qualificati come strumenti di lavoro i software che servono a gestire archivi di dati necessari al servizio reso dal lavoratore (come i CRM, cioè i software di Customer Relationship Management).

All’estremo opposto ci sono invece i software utilizzati esclusivamente o soprattutto per monitorare in modo costante la performance lavorativa o la produttività del dipendente. Questi non rientrano certamente tra gli strumenti di lavoro, ma non sono nemmeno ammissibili in seguito ad autorizzazione. Come detto, il controllo non può essere la finalità dello strumento, bensì solo un effetto collaterale di un sistema che viene impiegato per altre esigenze (produttive e organizzative, di sicurezza o di tutela del patrimonio aziendale).

La videosorveglianza del posto di lavoro nella gestione del rischio di contagio: il caso Proxemics

La sicurezza del lavoro è una delle esigenze per cui si ammette l’installazione dei sistemi di videosorveglianza. Garantirla è dovere e responsabilità dell’imprenditore, che ha quindi l’interesse a che vengano attuate tutte le cautele previste.

L’esigenza è oggi particolarmente avvertita per prevenire possibili contagi dal coronavirus SARS-CoV-2.

Proxemics, il software di Amazon che controlla distanze e assembramenti

Ha attirato le attenzioni dei media la decisione di Amazon di installare nei propri stabilimenti un sistema di videosorveglianza basato sul software Proxemics. Tramite questo strumento, realizzato proprio da una società del gruppo di Jeff Bezos, l’azienda riesce a controllare il rispetto della distanza di due metri tra i lavoratori nei magazzini.

Proxemics analizza le immagini (sfocate) e in tempo reale avvisa se due persone si trovano a distanza inferiore a quella “di sicurezza”; un’altra funzione del sistema permette anche di rilevare quando in uno spazio comune si trovano 15 o più persone, in modo da evitare assembramenti.

La decisione dell’INL su Proxemics e l’opposizione dei sindacati

In Italia (ma non solo) Amazon ha trovato l’opposizione dei sindacati e non è riuscita a raggiungere un accordo con le rappresentanze dei lavoratori. Per installare Proxemics, il colosso americano si è rivolto all’INL, che lo scorso novembre ha approvato l’installazione del sistema di videosorveglianza fino alla conclusione dell’emergenza sanitaria. Si tratta infatti di un impiego ammesso dallo Statuto dei lavoratori, in quanto finalizzato a garantire la sicurezza del lavoro. Le rappresentanze sindacali di Amazon sembrano tuttavia intenzionate a continuare a contestare la legittimità di Proxemics e stanno valutando anche di ricorrere in sede giudiziale.

Meeting su Zoom: conciliabile con la videosorveglianza?

Con l’aumento del lavoro agile, le attività in videoconferenza hanno assunto una frequenza pressoché quotidiana, quando non oraria. Generalmente però si tratta di attività necessarie al lavoro, che sostituiscono le riunioni in presenza e le telefonate fatte in ufficio.

Rientrano quindi tra gli strumenti di lavoro. Dunque è bene che l’azienda predisponga e consegni al dipendente un’informativa sulle modalità di utilizzo e su eventuali controlli, e che ovviamente rispetti le norme in materia di protezione dei dati personali.

In ogni caso non è possibile sfociare nel controllo costante. Non è ammissibile ad esempio chiedere al lavoratore di tenere la webcam sempre accesa, per controllare che stia lavorando.

Analogamente non si possono installare, nei computer utilizzati per lavorare da casa in smart work, software come Sneek, che scattano fotografie dalla webcam a una frequenza prestabilita e consentono anche in questo caso un continuo controllo da parte del datore di lavoro. Si tratterebbe di una forma di controllo equivalente a quello esercitato con una telecamera puntata sulla scrivania del dipendente, senza dubbio vietata dallo Statuto dei lavoratori. Per approfondire il tema dello smart working, vedi anche il pezzo “Smart work: conciliabile con controlli a distanza e privacy?“.

La protezione dei dati personali acquisiti

Come anticipato, la tutela del lavoratore in caso di videosorveglianza attiva sul posto di lavoro non si esaurisce nello Statuto, ma va integrata con quanto stabiliscono il GDPR e il Codice della privacy.

Ciò significa che bisognerà anche attuare tutte le cautele previste in materia di trattamento dei dati personali:

  • valutazione d’impatto;
  • informativa;
  • nomina del responsabile del trattamento;
  • inserimento nel registro dei trattamenti;
  • implementazione delle misure necessarie a garantire la sicurezza dei dati.

Sul punto lo European Data Protection Board (EDPB) ha fornito i propri chiarimenti con le linee guida 3/2019, riprese in Italia dal Garante per la protezione dei dati personali nelle FAQ del 5 dicembre 2020.