Di “diritto alla disconnessione” si parla con sempre maggiore interesse. La pandemia ha infatti incentivato come mai prima di oggi la digitalizzazione, anche nel lavoro. Modalità alternative, su tutte lo smart working, di fatto eliminano la distinzione tra contesto lavorativo e ambiente di casa, facendoli quasi coincidere. Le conseguenze sono e saranno molte, soprattutto quando lo smart working prenderà piede come modalità di lavoro non più “straordinaria”.

Vediamo a che punto è arrivata l’affermazione e l’applicazione di questo diritto, e come l’accordo individuale sul lavoro agile lo potrà garantire nell’interesse di lavoratori e datori.

Le conseguenze della pandemia sul modo di lavorare

Oggi il lavoro da remoto è implementato oltre ogni previsione. Lo smart working si è diffuso ovunque, sia nel pubblico che nel privato. Infatti, se nel 2019 poco più di 1 milione di lavoratori ha conosciuto lo smart working, nel 2020 oltre 4 milioni ne sono stati coinvolti.

Ma quali conseguenze porta con sé questa nuova modalità di lavoro?

Sicuramente molte sono favorevoli: stare più vicini agli affetti, ottimizzare la giornata tra le mura domestiche, evitare gli spostamenti ed i relativi costi e tempi.

C’è però un “rovescio della medaglia”. Infatti lavorare da remoto ha anche aumentato l’incidenza di alcuni rischi.

Difficoltà nel conciliare il tempo del lavoro e quello della vita privata, prolungare l’orario rispetto al tempo di normale presenza in azienda. O, ancor più, essere sempre reperibili, anche quando non si dovrebbe o vorrebbe.

Il diritto alla disconnessione si pone come rimedio per la prevenzione di questi rischi.

Che cos’è il diritto alla disconnessione?

In estrema sintesi, è il diritto del lavoratore da remoto di astenersi, senza subire conseguenze negative, dallo svolgere attività fuori del normale orario.

Lo scopo è contemperare l’interesse produttivo con quello alla prevedibilità dell’orario di lavoro – vero e proprio valore per le istituzioni europee, tanto da trovare spazio in un’apposita Direttiva del 2019 – e quindi anche con il riposo e le altre tutele. Lavorare da casa, infatti, non significa essere sempre connessi e pronti a rispondere, a qualsiasi ora, al cellulare o sulla chat aziendale.

Quali rischi vuole prevenire e tutelare

“Dove sei?”, “Su cosa stai lavorando adesso?”, “Se ti allontani dal computer per più di 15 minuti manda un messaggio, anche se stai bevendo un thè”. Queste, secondo il Financial Times, sono solo alcune delle incalzanti domande che uno smart worker potrebbe ricevere da un datore di lavoro.

Dunque il lavoratore deve poter fronteggiare le aspettative, implicite o esplicite, che gravano su di lui. Aspettative, come visto, di reperibilità, quali il controllo delle e-mail a casa, o durante la notte, o nei weekend; oppure di informativa del suo eventuale assentarsi dalla postazione da remoto. Tutto ciò può avere, se pensiamo all’estensione dello smart working, un impatto molto forte, e potenzialmente dannoso.

Lo ha sicuramente – e soprattutto – nei confronti dei lavoratori più giovani, per i quali lo smart working è forse la sola modalità lavorativa conosciuta. Uno studio condotto da MindShare dice infatti che già prima della pandemia il 50% dei millennials aveva lasciato il lavoro per ragioni riguardanti la salute mentale, dato che sale addirittura al 75% per la “generazione Z”.

A questa criticità si aggiunge quella della necessità di conciliare gli impegni e le responsabilità familiari, molto più estesa perché coinvolge un panorama più ampio. E questo alimenta, anche in una prospettiva di genere, la preoccupazione verso la necessità di garantire il diritto alla disconnessione, e dunque uno spazio libero da pressioni oltre l’orario lavorativo.

Ne va della stessa salute: da più parti infatti si solleva l’allarme per i rischi psicosociali nel lavoro. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha espresso preoccupazione per i cambiamenti nel lavoro dovuti alla pandemia ed al forte ricorso allo smart working.

Già prima del 2020 centinaia di milioni di persone nel mondo soffrivano di depressione ed altri disturbi mentali correlabili anche al lavoro. Il rischio di un collegamento costante e di conseguente minor riposo, e l’assenza di limiti alle comunicazioni fuori dall’orario di lavoro, potrebbero pregiudicare lavoratori e aziende.

Occorre dunque un atteggiamento consapevole verso l’impegno lavorativo “smart”. E proprio per questo l’attenzione delle istituzioni è massima.

Quale è la legislazione sul diritto alla disconnessione e come ci si è arrivati?

Nel contesto europeo non esiste ancora una normativa comunitaria generale, che gli Stati europei possano recepire.

Si tratta infatti di un tema nuovo: è discusso da meno di dieci anni, sia da agenzie regolatorie che da istituzioni. La disciplina oggi è ancora parziale, perché c’è solo per determinate tipologie di lavoro e non per altre, e comunque varia da Paese a Paese.

Il primo Stato europeo ad aver dato una disciplina, seppur “iniziale” e parziale, del diritto alla disconnessione è stata la Francia, con la legge n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016: essa obbliga le aziende con più di 50 dipendenti a prevedere nel contratto aziendale il diritto alla disconnessione.

È seguita l’Italia, con la legge n. 81 del 2017 sul lavoro agile (vedi sotto).

Nel 2018 questo diritto ha trovato ingresso nella legislazione spagnola, ma, anche lì, solo parzialmente, senza una disciplina generale e trasversale alle varie realtà produttive.

L’iniziativa delle istituzioni europee

Fino a oggi, insomma, i Paesi europei andavano in ordine piuttosto sparso. Nel 2019 il Parlamento Europeo ha approvato una Risoluzione sull’occupazione, evidenziando la forte attenzione al tema del diritto alla disconnessione e la necessità di affrontarlo. A questa consapevolezza hanno portato anche le più recenti sentenze della Corte di Giustizia sull’orario di lavoro e sui periodi di reperibilità o riposo. Poi, il dialogo tra le parti sociali europee ha portato ad un accordo quadro europeo in materia di digitalizzazione del lavoro, in cui il diritto alla disconnessione gioca un ruolo cruciale.

È quindi arrivato il rapporto di Eurofound del 2020 sugli effetti della pandemia. È emerso che durante il lockdown oltre 1/3 dei lavoratori dell’Unione ha cominciato a lavorare da casa, mentre prima era solo il 5%. E, soprattutto, che il 27% degli smart worker intervistati ha lavorato nel proprio tempo libero per soddisfare esigenze lavorative.

Poi, con la Relazione del 1° dicembre 2020 il Parlamento Europeo ha invitato la Commissione – organo esecutivo dell’U.E. – a valutare e affrontare i rischi di una mancata tutela del diritto alla disconnessione. Da lì ad un provvedimento concreto il passo è stato breve.

La Risoluzione di gennaio 2021 del Parlamento Europeo

Il Parlamento Europeo ha infatti recentemente approvato una Risoluzione recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione, in forma di proposta di Direttiva sul tema.

Si afferma che la transizione digitale e i progressi dovuti alle nuove possibilità tecnologiche “non dovrebbero condurre a un uso disumanizzato degli strumenti digitali né sollevare preoccupazioni relative alla vita privata”. Per non parlare dei rischi di riduzione della concentrazione, di “sovraccarico cognitivo ed emotivo”, oltre ai possibili problemi di postura e di esposizione a radiofrequenze per l’uso frequente di dispositivi mobili. I lavoratori “non sono tenuti a fornire ai datori di lavoro una disponibilità costante e senza interruzioni”, e anzi è necessario creare le condizioni perché “siano informati sul loro diritto alla disconnessione e possano esercitarlo”.

La Commissione è stata dunque invitata a “presentare un quadro legislativo al fine di stabilire requisiti minimi sul lavoro a distanza in tutta l’Unione, garantendo che il telelavoro non pregiudichi le condizioni di impiego dei telelavoratori”.

Cosa prevede la normativa in Italia

Come detto, il concetto di “diritto alla disconnessione” è entrato nella legge italiana sul lavoro agile, legge n. 81 del 2017, art. 19. L’articolo prevede che l’accordo sul lavoro agile sottoscrivibile tra datori e lavoratori debba prevedere misure tecniche ed organizzative necessarie ad assicurarlo.

Questa disciplina si è rivelata però priva di concreta utilità, anche per l’assenza di sanzioni che ne assicurassero l’applicazione. Tanto da essere ritenuta dai Consulenti del Lavoro “vuota, senza una connotazione pratica”.

Tuttavia l’interesse sull’argomento è cresciuto sempre più, anche grazie all’attenzione di altri. In un’audizione del 13 maggio 2020 al Senato, il Garante della Privacy ha affermato la necessità di assicurare e disciplinare “anche quel diritto alla disconnessione, senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale”. E ha ricordato l’importanza di prevenire eccessi nell’utilizzo del potere di controllo dello smart worker da parte del datore di lavoro, di cui anche noi ci siamo occupati.

Finalmente, con il 2021 anche nel nostro Paese questo diritto trova maggiore spazio. Infatti, in sede di conversione del D.L. 13 marzo 2021 n. 30 i lavori parlamentari hanno portato ad inserire una norma specifica su questo diritto (art. 2, co. 1-ter), recepita nella L. 6 maggio 2021 n. 61. È riconosciuto, appunto, il diritto del lavoratore alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati”.  Inoltre, il suo esercizio ‘non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.

La nuova legge si applica in tutto il Paese dal 13 maggio scorso. Dunque oggi gli accordi individuali sul lavoro agile devono prevedere tale diritto.

Il ruolo delle imprese

Se dunque la L. 81/2017 ha dato ingresso al diritto alla disconnessione, il D.L. 30/2021 come modificato dalla L. 61/2021 lo specifica e lo rinforza.

Le imprese avranno ancora un ruolo importante affinché la legislazione sia “pronta ed efficace” nella pratica e questo diritto sia garantito concretamente. Prevederlo negli accordi individuali con i lavoratori consentirà di implementarne l’applicazione, che comunque era già possibile con la L. 81/2017.

Peraltro, ancora prima di quella legge le imprese avevano previsto delle tutele per i dipendenti in smart working, e tra queste appunto il diritto alla disconnessione. Lo fece Volkswagen nel 2011, che scelse di sospendere le comunicazioni aziendali sui device portatili dalle 18 alle 7 del mattino. E poi Barilla, che nel 2015 raggiunse un accordo con le organizzazioni sindacali per cui il lavoratore da remoto doveva rendersi disponibile e contattabile tramite i dispositivi aziendali durante l’orario di lavoro. Il che, di riflesso, comportava la disconnessione fuori di quegli orari. E, ancora, General Motors Italia nel 2015, Siemens nel 2017, UniCredit nel 2018.

Come garantire in concreto il diritto alla disconnessione?

Garantire il diritto alla disconnessione dipenderà molto dai singoli accordi individuali sul lavoro agile.

Anzitutto, prevedendo fasce di reperibilità del lavoratore, anche a pena di sanzioni disciplinari. Poi, stabilendo le modalità di esercizio dei poteri del datore di lavoro (direttivo, di controllo, sanzionatorio). Ancora, specificando i mezzi tecnologici e le strumentazioni utilizzabili dal lavoratore.

L’accordo dovrà tenere conto delle esigenze produttive, della mansione, e delle esigenze personali sociali e familiari del dipendente.

Dunque sarà con la pianificazione, con il dialogo tra le parti, che i rischi che abbiamo visto potranno essere affrontati.

Occorrerà un cambiamento culturale? Sicuramente sì. Una responsabilizzazione nel lavoro che conduca ad accorgimenti – forse scontati? – che potrebbero avere un impatto favorevole per le realtà lavorative (per esempio impostare sistemi di invio di promemoria automatici o messaggi di avvertimento agli utenti che comunichino oltre l’orario stabilito; impostare ritardi programmati sull’invio delle mail, soprattutto se notturne).

Per dirla con il Parlamento Europeo, “la Commissione, gli Stati Membri, i datori di lavoro e i lavoratori devono sostenere e incoraggiare attivamente il diritto alla disconnessione e promuovere un approccio efficiente, ragionato ed equilibrato agli strumenti digitali che garantisca il diritto alla disconnessione e tutti gli altri diritti concepiti per tutelare la salute mentale e fisica dei lavoratori” (punto n. 19 della Risoluzione 21 gennaio 2021).

Sarà quindi la sinergia tra gli attori del lavoro agile a dare concreto impulso e riconoscimento a questo diritto, che presto entrerà a fare parte, ad ogni livello, non solo nazionale, delle conquiste nel mondo del lavoro.